Sono Chiara, ho 33 anni e ho scelto di fare l’infermiera perché, per me, gli infermieri che ho incontrato da piccola, quando mia madre era ricoverata in ospedale, hanno rappresentato un punto di riferimento importante, figure di grande supporto sia per lei che per noi familiari.
Lavoro per “Studio Auxilium” e “Cooperativa Libera” dal 2012. Quella del carcere è stata la mia prima esperienza professionale, che prosegue dunque da 9 anni. Ho iniziato come infermiera di sezione, lavorando a stretto contatto coi detenuti e occupandomi della loro assistenza. Poi, nel 2017, dopo aver conseguito il master in coordinamento, sono diventata coordinatrice infermieristica del carcere di Prato e successivamente anche di quello di Pistoia.
Il mio compito è principalmente quello di organizzare e gestire il lavoro degli infermieri e del personale OSS, che all’interno di una struttura così grande è piuttosto complesso e articolato. Basti pensare al fatto che il nostro lavoro deve essere costantemente in sinergia con quello degli agenti di Polizia Penitenziaria, coi quali dobbiamo confrontarci per rendere tutti i processi più fluidi. Alla base deve esserci una buona organizzazione perché ci sono molte figure che ruotano attorno ai detenuti: un istituto penitenziario è come una piccola città. In ogni città è presente un ospedale, che nel nostro caso è costituito da quella che definiamo “infermeria centrale”. Al suo interno vengono svolte tutte le attività ambulatoriali da parte dei medici, regolarmente presenti in struttura per limitare il più possibile le traduzioni esterne, cioè gli spostamenti dei detenuti al di fuori del carcere. In più, chiaramente, esiste un sistema di prenotazione e invio dei pazienti verso le strutture sanitarie esterne, che ancora una volta deve essere gestito in accordo con la Polizia Penitenziaria.
Lavorare in carcere è un’esperienza dinamica e davvero unica: personalmente mi ha cresciuto e sta continuando a farlo. Si tratta di qualcosa di poco conosciuto da chi non tocca con mano questa realtà, perché se ne parla davvero troppo poco negli ambienti universitari e della formazione in genere. Il primo approccio a questo lavoro è indubbiamente complesso, è infatti previsto un lungo affiancamento per chi ha intenzione di cimentarsi in questa avventura. Inoltre l’esperienza è riservata a pochi, in quanto gli istituti penitenziari non sono così numerosi e i posti disponibili sono limitati.
Senza dubbio il ruolo dell’infermiere è ostacolato dalle numerose regole che il contesto impone. Ad esempio il rapporto empatico col paziente viene costruito diversamente rispetto a quanto avviene al di fuori. Può essere profondo e significativo, ma ha sfumature inusuali. Anzitutto siamo costretti a mettere dei confini chiari fin da subito, infatti non possiamo comunicare il nostro nome o informazioni personali di alcun tipo, perciò viviamo in una sorta di anonimato. Riveste perciò un’importanza cruciale l’ascolto che riusciamo a riservare ai pazienti e il supporto emotivo che gli forniamo: è solo attraverso questi processi, che richiedono una sospensione del giudizio nei loro confronti, che possiamo provare a costruire, poco alla volta, delle relazioni efficaci. A volte ci riusciamo con grande soddisfazione. Oltretutto non siamo mai soli nello svolgimento delle nostre attività: gli agenti ci scortano per garantire la nostra sicurezza, e questo rappresenta al contempo un elemento di tutela e una limitazione, perché modifica inevitabilmente i tempi del nostro lavoro.
I rischi relativi alla nostra sicurezza personale non sono troppo diversi da quelli che un infermiere può correre in un pronto soccorso: il fatto di essere scortati ci fornisce una protezione in più rispetto a quanto accade in altre realtà.
Ultimo ma non ultimo, durante le emergenze che necessitano di un intervento del 118, a causa della grandezza della struttura e dei controlli meticolosi che vengono eseguiti su chiunque acceda al carcere, l’azione diretta dei soccorritori può essere ritardata. Per questo motivo gli infermieri che lavorano dentro l’istituto devono essere ben preparati a gestire le situazioni d’urgenza in autonomia.
L’arrivo della pandemia ha comportato numerose criticità. Soprattutto durante la prima ondata del Covid-19, vista anche la scarsità dei DPI (dispositivi di protezione individuale) disponibili, è stato difficile lavorare in maniera sicura, ma abbiamo fatto del nostro meglio e fortunatamente le cose sono andate per il verso giusto. Oltretutto, proprio all’inizio della pandemia, nel marzo 2020, abbiamo vissuto anche una rivolta dei detenuti, che sono entrati in contatto in maniera massiccia. La Polizia Penitenziaria è dovuta intervenire per sedare la rivolta e ripristinare l’ordine, e una volta riguadagnata una situazione di sicurezza eravamo preoccupati di una possibile diffusione del virus, che però non c’è stata. Insieme alla ASL e alla Penitenziaria abbiamo da subito elaborato dei protocolli interni che, grazie all’impegno di tutti, ci hanno permesso di contenere i rischi. Ci sono stati alcuni casi positivi, soprattutto fra gli agenti, ma sono stati prontamente rintracciati e isolati, perciò il virus non ha preso campo.
Per quanto riguarda invece i detenuti, i casi di positività hanno riguardato principalmente i nuovi giunti, ovvero le persone appena incarcerate. È stata allestita una sezione dedicata per la quarantena, dalla quale i detenuti potevano essere spostati solo dopo aver eseguito i tamponi di controllo e aver concluso l’isolamento sanitario. Questa procedura è tuttora in vigore. Inoltre noi infermieri ci siamo occupati di fare molta prevenzione, effettuando tamponi a tappeto su tutti i detenuti e gli agenti una volta al mese e somministrando i vaccini: proprio oggi, grazie alla collaborazione delle assistenti sanitarie, abbiamo concluso la somministrazione delle seconde dosi, raggiungendo così l’immunità di gregge. I buoni risultati ottenuti sono stati possibili anche per merito degli stessi detenuti, che hanno dovuto affrontare rinunce importanti: sono stati a lungo privati dei colloqui coi familiari in presenza, chi studia non ha potuto frequentare le lezioni di persona e in più, quando sono stati scoperti dei casi positivi in sezione, hanno dovuto rinunciare all’ora d’aria e alla socialità. Hanno accettato queste restrizioni con pazienza, comprendendo che venivano messe in atto per il loro bene, e così hanno contribuito a rendere il carcere di Prato Covid-free.
Durante la cerimonia dedicata alla duecentoquattresima festa del corpo di Polizia Penitenziaria io e tutto il presidio sanitario siamo stati premiati per l’impegno dimostrato nella gestione dell’emergenza e per la stretta collaborazione, che senz’altro ha rappresentato uno dei fattori determinanti nella buona riuscita delle azioni di prevenzione e controllo che abbiamo messo in atto. Non è stato un periodo facile, ma abbiamo raccolto delle belle soddisfazioni, perché oggi possiamo dire che il carcere di Prato è un posto sicuro. La sfida non è ancora vinta del tutto, ma noi non abbassiamo la guardia.